Secondo alcune stime, molte nostre produzioni d’eccellenza non esisterebbero se le industrie agroalimentari non potessero servirsi di questi mangimi. Addio Parmigiano Reggiano, Prosciutto di Parma, Mortadella Bologna. Quindi, addio tortelloni ripieni di formaggio, tagliatelle al ragù, tortellini e maccheroni. Ma ve la immaginate una pasta al pomodoro senza una spolverata di formaggio grattuggiato?
Forse, prima di demonizzare, prima di dire “no” agli Ogm, sarebbe opportuno investire su ulteriori studi tecnici, scientifici, di mercato, basarsi su delle cifre, su dati concreti.
Al convegno di Brera, è stato fatto notare che molti consumatori hanno una “fobia” verso il biotech – e forse non comprerebbero più certi cibi se sapessero che provengono da animali alimentati con mangimi a base di soia modificata – non conoscendo la sottile differenza tra un prodotto Gm-free (che non dovrebbe contenere Ogm) e uno Non-Ogm (che deve contenere meno dello 0,9% di Ogm). Tant’è che, in Italia, si possono commercializzare, senza obbligo di indicazione in etichetta, prodotti contenenti Ogm autorizzati se in quantità inferiore allo 0,9%. «Si possono altresì commercializzare anche prodotti contenenti percentuali di Ogm superiori – fa notare lo stesso Brera – basta che questi siano autorizzati per legge – In questo caso, invece, il produttore è obbligato a scrivere in etichetta che il prodotto contiene Ogm, in ottemperanza all’articolo 4 del Regolamento CE/1830/2003».
Ma il consumatore sembra non porre particolare attenzione alle diciture in etichetta. Così, alcune imprese preferiscono evidenziare sulla confezione Gm-free o Non-Ogm. «Ma questo claim – chiarisce Brera – è una scelta puramente commerciale e sottopone l’azienda anche a dei rischi di non conformità. Se viene rivelato da un controllo che una partita di prodotto dichiarata Gm-free, accidentalmente, contiene invece Ogm riscontrabile da un punto di vista quantitativo, l’impresa potrebbe essere sanzionata, in quanto la pubblicità è ingannevole. L’azienda sarebbe esposta – di fatto – a pesanti ripercussioni economiche, commerciali e di immagine».
Tant’è che le industrie agroalimentari troverebbero poco vantaggioso investire su produzioni di filiera Gm-free o Non-Ogm diverse dal biologico. Lo ha dimostrato uno studio presentato dal professor Amedeo Reyneri dell’Università di Torino e presentato al convegno di Roma.
Reyneri ha evidenziato quanto accaduto ad un’impresa produttrice di latticini. L’azienda offriva sia un formaggio molle “convenzionale” (ottenuto da latte di vacche alimentate con mangimi Ogm), sia un prodotto Gm-free (da latte di vacche alimentate con mangimi Ogm-free). La catena produttiva tra i due prodotti restava separata ma, alla fine, un premio per la seconda tipologia di prodotto è stato ottenuto solo in Germania, non in Italia. «Quanto accaduto, e altri esempi recenti – sottolinea il professor Reyneri – evidenziano che spesso per l’industria sarebbe poco conveniente offrire tali prodotti, perché non sembrano premianti dal mercato». Inoltre, produzioni di questo tipo sottopongono le aziende a impegni economici, burocratici e anche, come già detto, alla possibilità di incorrere in gravi rischi di non conformità.
Ma se l’industria non è interessata a investire nel Gm-free, è difficile ci possa essere un guadagno per l’agricoltura italiana, schierata, anche per volere del legislatore, contro il biotech.